Autopubblicazione: quando non hai un marchio a guardarti le spalle

Questo articolo non è una guida su come autopubblicarsi al meglio, non vuole sostenere i vantaggi del self rispetto all’editoria tradizionale, non ti consiglierà niente di immediatamente spendibile nè difenderà alcunchè. Quello che leggerai è la spiegazione delle motivazioni per cui IO ho scelto di autopubblicarmi, in piena capacità di intendere e di volere, come si dice per le scelte insolite.

Perchè sì, nel 2022 è insolito autopubblicarsi.

Per quanto cresca ogni giorno il numero di persone che decide per una strada indipendente, sappiamo anche che sono ancora pochi quelli che, nel farlo, hanno piena coscenza del percorso che stanno intraprendendo.

Ma facciamo un passo indietro, prenditi un attimo per entrare nei miei pensieri, proverò ad essere il più chiara ed emotiva possibile, che sembrano quasi ossimori (e lo sono per chi non percepisce la scrittura come piena espressione di sè stessi). Ti racconterò il mio percorso di scrittuta e chiuderemo il cerchio parlando del mio romanzo, ci vorrà un pò ma ti prometto che servirà ogni parola.

La mia preparazione non viene da grandi corsi, scuole importanti o nomi altisonanti.

A scrivere mi ha insegnato mia madre. A scrivere davvero intendo, a dire qualcosa quando prendo in mano una penna.

Mia madre lavorava, e lavora, come dipendente pubblico nel comune di un piccolo paese in provincia di Parma, che conta più alberi che persone. Mi ha insegnato come si tracciano le lettere su carta, come dargli la giusta distanza e mi ha spiegato che, se metti vicine delle parole, si crea qualcosa oltre alle parole stesse, un significato più ampio. E che poi sono cazzi tuoi se quello che scrivi non è quello che volevi dire. Mi leggeva e spiegava guide, estratti da antologie, grandi testi di scrittori, manuali presi in prestito dalla biblioteca. E me li ripeteva, mi faceva tante domande e mi diceva sempre che, se smettevo di studiare e non mi rimanevano almeno 3 quesiti, voleva dire che non avevo capito abbastanza, ma solo quel che serve. E nessuna grande storia si compone solo del necessario.

Mio padre, che lavorava in una ditta per produrre cemento, era quello che mi portava due giorni a Disneyland e una settimana in un museo. A sei anni sapevo la differenza tra impressionismo ed espressionismo, sapevo riconoscere un Manet da un Monet e di Leonardo da Vinci non mi affascinavano le sue macchine ma la cura dei dettagli nei suoi dipinti. Indicava un quadro e mi diceva: “Vedi quel che si può fare con studio e impegno?” Non quello che l’artista poteva fare, non quello che un uomo poteva fare. Quello che SI può fare. Quello che potevo fare.

La vita è un pò più complessa di così, ma essere cresciuta nell’idea che avrei potuto impegnarmi e produrre risultati incredibili è stata la fiamma che ha alimentato la curiosità che mia madre aveva sapientemente inserito come meccanismo guida della mia crescita.

Non ero una bambina eccezionale, non sono una donna eccezionale, è che quando cresci con genitori che ti raccontano la cultura con tale passione è difficile non rimanerne colpiti. Loro non erano artisti, non lavoravano in ambiti artistici, eppure l’arte non l’hanno mai messa da parte.

A nove anni ho scritto il mio primo romanzo, brutto come ci si aspetterebbe, forse anche peggio. A dodici uno degli esercizi che mi diede mia madre era di riprendere una storia vecchia e di sistemarla, lo feci. Ne rimase così colpita che lo mandò ad una casa editrice insieme ad un racconto. Presi entrambi.

Ti risparmio il racconto di quel periodo, per ora, visto che non ci servirebbe, ma da lì ho iniziato a coltivare l’idea di pubblicare, anche perchè avevamo venduto diverse copie e i bambini della mia scuola venivano sempre a chiedere la firma sul libro. Nella mia testa ce l’avevo fatta. Porta pazienza, avevo dodici anni.

E così ho iniziato ad avere a che fare con tutta una serie di case editrici piccole, inesperte, con cui ho pubblicato in digitale. Ti risparmio anche questa trafila.

Non capivo come mai la copertina non era mai quella giusta, i libri non sembravano mai ‘libri veri’, le correzioni non sembravano avere senso (e cosa peggiore, non sembravano sensate nemmeno a mamma, per la me pre-adolescente, massima esperta di scrittura).

Ho avuto contatti anche con un agente letterario con un metodo dubbio.

In breve, perdo la voglia di pubblicare; complice anche il bullismo, inizio a tenermi le cose per me. Mamma diceva che era una cosa buona, fa bene fare esercizio. Scrivo più di una decina di romanzi per esercizio e quando li finisco li abiuro, nascosti in un cassetto che invece dei sogni custodiva i rimpianti.

Fortunatamente incontro un gruppo di scrittori, quando ho 14 anni, che si riunivano online a chiacchierare di scrittura. Creiamo un club di esercizio creativo, ci editiamo a vicenda. Miglioro, cresco, inizio ad avere a che fare con i feedback e, dovendo lavorare su testi altrui, comprendo cosa è efficace e cosa no, come sistemare una frase, come correggere e stroncare. Capisco anche che la mia mamma non è il massimo esponente della sapienza narratologica, ma solo una mamma, che cercava di assicurarsi che la figlia avesse sempre modo di esprimersi al meglio, difendendola dalle parole sbagliate e dal silenzio. Trovo una mia strada per raccontare le storie. Finalmente.

E poi, anni dopo, arriva Zombie Friendly.

In un momento sbagliato, in un contesto lavorativo terrificante. Doveva essere un videogioco, ma interrompo la collaborazione prima che sia anche solo un piccolo feto di storia. E ora che faccio? Lo tengo?

I miei amici si stringono intorno a me e mi dicono di tentare. Ma io sono un’adulta che non condivide più le sue storie da tanto tempo, non so se adesso è il momento giusto.

Perchè poi, un libro, cambia ogni cosa. Non hai più il tempo che avevi prima, devi pensare a lui, che mica cresce da solo. E poi, quando lo lasci andare nel mondo, come riesci a non preoccuparti troppo?

Non avevo nemmeno un lavoro stabile, servono soldi per tirar su un libro.

Ma ci provo. E mentre lo scrivo e lo vedo diventare un ‘bambino vero’, devo decidere che scuola fargli fare: editoria tradizionale o autopubblicazione?

Ho amici in entrambi i campi, ascolto le loro esperienze, sono pari, uno a uno palla al centro.

Ma il mio libro è strano, non è come gli altri, ha qualche problema con la questione del genere, ha un sarcasmo che fa incazzare la gente, è legato a tematiche che non sono molto in voga.

Ma a me va bene che sia in questo modo, anche perchè mi rendo conto che, se fosse diverso, non sarebbe lui. E, contemporaneamente, mi rendo conto che non so un bel niente di come si pubblichi un libro. Ma sono una lettrice forte, una scrittrice con diversi tentativi nel cassetto sulle spalle, se mi faccio le domande giuste e cerco le risposte troverò un cammino.

Così prendo un bel respiro e dico: “Bene, autopubblicazione sia, allora”.

Perchè l’autopubblicazione?

La vera domanda è: Perchè no?

Quale miglior modo di rendermi responsabile e consapevole se non il dover gestire ogni passaggio della catena produttiva? Perchè quando ero piccola mica sapevo perchè la copertina era sbagliata, perchè l’editor non era adatto, perchè le cose non funzionavano. Sono partita da lì e mi sono chiesta: come si produce un libro?

Fortunatamente c’era Abel Montero, che di libri autopubblicati ne ha tirati su più di uno, sa come ci si sente ad essere neo-autopubblicati e mi ha aiutata a mettere in fila i pensieri, mi ha fornito spunti, mi ha dato qualche dritta che solo uno che ci è passato sa.

E mentre leggo manuali sul “Cosa aspettarsi quando si autopubblica” e faccio corsi su tutti gli aspetti che mi mancano, mi rendo conto quanto sono cresciuta.

Perchè autopubblicare un libro ti cambia, non nasciamo autori self.

Ringrazio di aver preso questa strada, perchè mi ha responsabilizzata, resa autonoma e consapevole di ogni parte della produzione. Mi ha spiegato quanto difficile è questo percorso, quanto ogni aspetto deve essere curato, quanti soldi ci vogliono per fare le cose in un certo modo. E questo senza nemmeno raccontarvi delle magiche avventure di Giulia Reverberi e l’ufficio del commercialista.

Ho capito che, se volevo fare le cose come dicevo io e rischiare, dovevo farlo con i miei soldi, perchè non si può essere avventati con quelli degli altri. Non ho nemmeno provato a mandarlo ad una casa editrice, non perchè sono contraria, ma perchè avevo scelto questo percorso non solo per la meta, ma per tutto il viaggio.

Avevo una base solida di curiosi che si chiedevano cosa diavolo stessi scrivendo, avevo un piccolo gruzzolo da parte per le emergenze (e questa era chiaramente un’emergenza) sapevo comunicare in pubblico e avrei potuto gestire io lo storytelling. Ho frequentato corsi, studiato, trasformato i fallimenti in tentativi.

Mi sono fatta i conti in tasca, ho messo sul tavolo ogni energia e possibilità che avevo a disposizione. Il pubblico deciderà per il testo, ma io posso già dirvi che la scelta del percorso è stata giusta. E ve lo dice la Giulia di oggi, che ha fatto pace con il suo passato e che non ha più un cassetto dei rimpianti ma un armadio di progetti e una scatola di ricordi.

Ho scritto il testo in sei mesi, autopubblicato in 10 e non ho mai imparato tanto come quest’anno. Non so cosa mi riserva il domani: forse ora potrò percorrere le vie tradizionali con la giusta consapevolezza, forse continuerò in self, forse lascerò rilevare i testi alle case editrici.

Ma rifarei cento volte questo percorso. Di cui sono grata. 

GIULIA BIFROST

Sono una scrittrice e content creator che ha fatto della comunicazione scritta e digitale il suo scopo, aiuto professionisti ed imprese a raccontarsi al meglio. 

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